sabato 20 luglio 2013
lunedì 8 luglio 2013
Cos'è un atomo? ( Ammesso che sia qualcosa )
Mladen Dolar, benché ancora poco noto in Italia, è uno degli esponenti più lucidi e significativi di quella che correntemente viene chiamata “Scuola di Lubiana” (con Slavoy Žižek, Alenka Zupančič etc.). In questo saggio, Dolar sviluppa alcune delle vedute che distinguono questa scuola in rapporto alla questione della costituzione “ontologica” dell’atomo e del den.
L’atomismo, così dice la storia, è stata la prima apparizione del materialismo nella storia della filosofia, nonostante la parola “materialismo” abbia fatto la sua comparsa soltanto nel diciottesimo secolo. Le battaglie filosofiche che infuriavano in precedenza, e non sono state di certo poche, sono state combattute sotto bandiere di diverso tipo e l’imposizione retroattiva della grande contrapposizione antagonistica tra materialismo e idealismo potrebbe presentare problemi, come vedremo, nonostante chiami in causa delle poste in gioco molto alte. Hegel, l’arci-idealista, o almeno così si dice, sembrerebbe quindi essere un sostenitore dell’atomismo piuttosto improbabile: eppure ogni qualvolta abbia toccato la questione, cosa che ha fatto in poche occasioni, ha trattato la posizione atomistica con entusiasmo, considerandolo come il presagio di un’idea speculativa profonda e di ampia portata emergente all’alba della filosofia, un’intuizione da tenersi stretta anche se insufficiente, una visione del mondo che ci riportasse indietro alle basi, al minimo, alle condizioni preliminari del pensiero.
La rivendicazione dell’atomismo al materialismo non dipende dalla celebrazione della materia come sostanza ultima, con la pretesa che lo spirito e l’anima siano materiali allo stesso modo della natura: piuttosto implica un’operazione che va molto oltre. Per metterla nei termini più semplici e scusandomi per questa considerazione breve ed estremamente semplificata, la filosofia prende le mosse da una tesi fondamentale: tutta la diversità dell’essere può essere spiegata da un solo principio. Può essere ridotta all’Uno, che sia l’arché dei primi naturalisti o, nella sua prima vera comparsa, la grandiosa idea speculativa di Parmenide che “l’Essere è uno” (e quindi indivisibile). Questa operazione presuppone la possibilità di sottoporre l’essere a una conta: fondamentalmente alla conta di uno. L’Essere può essere contato? Può essere misurato da un numero? Quanti essere vi sono?[i] Platone, nel Parmenide, offrirà la lista esaustiva di tutte le possibili trasformazioni basate soltanto su due elementi, Essere e Uno, in quanto matrice minima con cui ricondurre tutte le cose a un unico concetto. Perché un logos sia possibile, l’Essere deve essere contato: deve essere calcolabile e calcolato. In una parola, vi è un “matema” dell’Essere, per usare un’espressione di Lacan – questa è la “tesi filosofica zero”.
La filosofia eleatica si è basata su due principi chiave: 1. che l’essere è uno e indivisibile, e 2. che l’Essere è (non può non essere) e il non-essere non è. L’atomismo, come reazione a questa posizione, ha adottato una visione decisamente opposta su entrambi i lati: primo, che l’Essere sia divisibile per uno, non indivisibile come uno. Ha posto l’atomo come particella indivisibile in cui qualsiasi cosa può essere scomposta, imponendo così il semplice contare a tutti i diversi e infiniti aspetti dell’essere. L’atomo può essere contato come uno, senza alcuna possibilità di ulteriore divisione, ed ogni cosa che esiste può essere ridotta essenzialmente a questo “conto-per-uno”, fino all’infinito. Secondo, nel momento in cui si pone questo “uno” come l’elementare particella dell’essere, si pone, nello stesso momento, il vuoto che separa gli atomi e che rende possibile il loro movimento: ancor di più, il principio del loro stesso movimento. In questo modo il non-essere viene posto al centro dell’essere. La “tesi zero” degli atomisti è: il non-essere è, ed è reale proprio come l’essere. Si scompone così la complessità dell’essere in due elementi: l’uno e il vuoto. Se vi è una divisione negli atomi, essa non riguarda le particelle indivisibili, ma il vuoto che le circonda e che permette loro di essere contate per uno. Da qui, il principio eleatico poggia sull’Uno come comun denominatore di tutto l’Essere, l’uno della totalizzazione, dell’hen kai pan, mentre l’uno atomistico è l’uno di una rottura, un uno-che-rompe, uno in quanto introduce una rottura, un’incrinatura nell’Essere. Vi sono due tipi di “uno” che si confrontano: l’uno che provvede alla totalità e ne riempie ogni possibile spaccatura, conservando l’Essere come un tutto; e l’uno che perturba l’Essere, introducendo un’apertura nel tutto, per usare un (cattivo) gioco di parole in inglese, senza essere complice della totalità (e piuttosto facendo in modo che vi sia un “non-tutto”). Nietzsche, in una delle sue note postume, ha visto nella mossa eleatica “un articolo di fede metafisica, derivato da un’intuizione metafisica e che attraversiamo in tutte le filosofie, col tentativo sempre nuovo di esprimerlo meglio – l’affermazione che “tutto è uno”[ii]. Bene, le filosofie del “non-tutto”, gli atomisti, erano lì pronti a contrastare immediatamente questa mistica.
Hegel, il presunto arci-idealista, qualora ve ne sia mai stato uno, è sempre stato entusiasta di ciò che egli vedeva come la più grande conquista speculativa dell’atomismo antico: cioè che alla base abbiamo sempre non un’unità, ma un’unità spaccata in qualcosa e un vuoto, così che dobbiamo includere il vuoto come “l’altra metà”, “la metà perduta” dell’essere fisso degli atomi. Lui stesso ritorna su questo punto più e più volte. La questione del materialismo è immediatamente in gioco: perché se il problema viene posto in questi termini per Hegel si tratta ovviamente di idealismo antico, dal momento che gli atomi, le unità e il vuoto sono chiaramente “principi ideali”. Non sono qualcosa che possa essere visto o esperito: nessuno ha mai visto, percepito, esperito un atomo, non solo a quei tempi, ma in ogni secolo, anche con i migliori strumenti alla mano. L’atomo è chiaramente un’idea, l’idea di uno e della divisione, l’idea del vuoto e del non-essere. “Il principio dell’uno è interamente ideale [ideell ], appartiene interamente al pensiero, anche nel caso si voglia ammettere che gli atomi esistano. L’atomo può essere considerato in un senso materiale, ma questo rimane non-sensibile [unsinnlich], puramente intellettuale”. (TWA[1] 18, p.358). Gli atomi sono invisibili, non solo per via della loro dimensione minuscola, ma perché “non è possibile vedere l’Uno [das Eins kann man nicht sehen], è un’entità astratta del pensiero… Il principio dell’uno è interamente ideale, ma non nel senso che esso esista solo nel pensiero, nella testa, ma nel senso che il pensiero è la vera essenza delle cose [der Gedanke das wahre Wesen der Dinge ist].” (pp. 358-59). Così gli atomi sono ideali in primo luogo nel senso più debole secondo cui in principio non sono materia di percezione, esperienza e sensi, quindi in un senso più forte, nel senso hegeliano paradigmatico, che queste entità ideali presenti nella testa toccano l’essere. Queste non sono opposte all’essere sensibile, ma in realtà esprimono chiaramente il loro nocciolo. Da qui la conclusione di Hegel che questo sia “idealismo in un senso più alto, non in quello soggettivo [Idealismus im höheren Sinne, nicht subjektiver]” (p.359): in ballo qui non c’è, infatti, alcuna idea soggettiva nella testa di qualcuno (piuttosto, è il soggetto in sé a non essere altro che un effetto di questo divisione). Questo è anche in linea con uno dei frammenti di Democrito (riportato da Plutarco): il fatto che l’atomo sia un’idea, atomos idea. (Si potrebbe anche aggiungere che atomos per Democrito era di genere femminile, come un aggettivo sostantivato in corrispondenza con l’idea, mentre diventerà neutro più tardi, seguendo il soma, il corpo. La questione del genere grammaticale non è neutrale: l’atomo è stato reso neutro separandolo dal suo genere e trasformandolo in un corpo. E’ una questione di genere il fatto che un atomo sia un corpo o un’idea. Cosa è il sesso degli atomi? Sono nati come idee e resi neutri come corpi).
Alla base dell’argomentazione hegeliana vi è l’affermazione che l’essere e il pensiero si incrociano, non devono essere opposti, e il punto in cui si essenzialmente si incontrano è la spaccatura e nel vuoto. Come dirà Hegel più tardi nella Storia della Filosofia (discutendo di Epicuro):
Questa rottura [interruzione, Unterbrechung] è l’altro lato degli atomi: il vuoto. Il movimento del pensiero è un movimento tale che ha in se stesso la rottura (il pensiero è nell’uomo precisamente ciò che gli atomi e il vuoto sono nelle cose, il loro Interno[das Denken ist im Menschen eben das, was die Atome und das Leere in den Dingen, sein Inneres]). (TWA 19, str. 311).
Questo è il vecchio Hegel. Così il pensiero è la rottura dell’essere, la sua Unterbrechung, la sua interruzione, e ciò che il pensiero e i suoi oggetti hanno in comune è la rottura che interrompe l’oggettività, introducendo il vuoto. Il pensiero e il mondo s’incontrano nel vuoto introdotto dal pensiero; ma questo è il reale accesso all’essere che ha il pensiero, l’interruzione pensante interrompe l’essere stesso, apre l’essere per noi o, all’inverso, il pensiero è posto in una frattura dell’essere, e le due direzioni sono indistinguibili per Hegel. La questione qui non è tanto se l’atomismo sia una buona teoria e se Hegel lo abbia accolto nella sua spiegazione dell’essere: lui stesso lo avrebbe considerato insufficiente e troppo astratto. La questione non è nemmeno se questa sia una buona ricostruzione storica dell’atomismo antico, visto che sul tema sono state prodotte numerose ricerche filologiche di grande rilievo. La questione vera è che l’atomismo include una certa intuizione che lo stesso Hegel considerava valida e di ampia portata: il fatto che sia un principio di negatività a muovere insieme il pensiero e l’essere; che questo principio forma l’interiorità di entrambi nel profondo, sein Inneres. Per dirla nei ben noti termini hegeliani: il modo in cui la sostanza e il soggetto si reggono insieme deve essere legato a questo principio. E in questo modo vediamo che la divisione fra idealismo e materialismo assume una diversa proporzione: in questione non è la precedenza della materia rispetto al pensiero e alle idee, della materia posta come indipendente da questi, ma se e in che modo il pensiero si incontra con la materia o se la divisione della materia sia il luogo reale in cui il pensiero si iscriva. Non vi è alcun materialismo senza l’esposizione di questo paradosso: in caso contrario la materia diventa solo un altro nome per la tradizionale sostanzialità. Così la questione non è chi venga prima, ma come pensare la loro frattura, quindi la loro articolazione[iii]. La questione di ciò che viene prima, materia o idea, assume già la divisione che struttura la domanda: la compiuta divisione in materia e pensiero. Ma materialismo e idealismo differiscono piuttosto nel modo stesso di porre questo schema.
Hegel torna su questo punto nella Logica, nella nota sull’atomismo, quando introduce il suo concetto dell’Uno:
Il principio atomistico, con questi primi pensatori, non è rimasto nell’esteriorità, ma, nonostante la sua astrazione, conteneva una determinazione speculativa: che il vuoto era riconosciuto come la fonte del movimento. Ciò implica una relazione completamente differente fra gli atomi e il vuoto rispetto al mero uno-accanto-all’altro [Nebeneinander] e la mutua indifferenza dei due. […] Il punto di vista secondo cui la causa del movimento risieda nel vuoto contiene quel pensiero più profondo per cui causa del divenire è il negativo. (Logica, TWA 5, p. 185-6)
In un certo senso si potrebbe dire che Hegel stia tutto in questo passaggio fondamentale. Ponendo l’uno, come entità positiva, si pone inevitabilmente il vuoto, il non-essere, come il vero elemento in cui l’uno possa prosperare. Così ciò che è indivisibile, per Hegel, non è né l’uno né il vuoto: ad essere indivisibile è la divisione in se stessa. Per quanto si possa cercare lontano un elemento minimo, non arriveremo mai ad un uno che sia il minimo e l’indivisibile: ma alla divisione. Il vuoto, come la platonica metà perduta dell’elemento come uno, risponde a questa descrizione essendo appunto scomparso (ciò che scompare). L’atomo di Hegel, la sua particella elementare è quindi l’atomo in sé in questo senso preciso: 1. ciò che non può essere diviso ulteriormente è la divisione in sé; 2. il negativo è la condizione interna del positivo; 3. non vi è alcuna unità, ma un’unità frammentata; 4. essere e pensiero si incontrano in questa spaccatura. L’atomo del pensiero hegeliano è l’atomo.
Vi è un quinto punto, che è tutto fuorché evidente, che tuttavia costituisce il momento cruciale per Hegel. Con un altro colpo audace, Hegel vede in questo vuoto e in questa rottura precisamente il luogo del soggetto. Un altro passo in avanti è richiesto: gli antichi vedevano molto bene questa rottura e il negativo, ma ciò nonostante non avevano ancora realizzato che questo fosse il luogo reale del soggetto, e che il soggetto, in senso hegeliano, altro non è se non ciò che emerge in questa rottura, che abita la disparità dell’uno con se stesso, racchiuso proprio da questa divisione. Quindi questo atomo del pensiero hegeliano deve essere esteso: non è un mero atomo dell’essere, ma allo stesso tempo l’atomo del soggetto, il modo autentico attraverso cui il soggetto appartiene all’essere, il modo in cui, profondamente, “la sostanza è soggetto”, come recita il suo noto adagio. Hegel afferma questo in un passaggio in qualche modo enigmatico della “prefazione” alla Fenomenologia:
…certi antichi concepivano il vuoto [das Leere] come ciò che muoveva le cose [das Bewegende], dal momento che questi concepivano ciò che muove le cose come il negativo, ma non avevano ancora colto questo negativo come il sé [das Selbst][iv].
Così gli antichi avevano visto bene il principio della negatività nel vuoto, rompendo ogni “uno” alla radice. Si erano anche figurati il negativo come la forza movente, ma non sono stati in grado di cogliere in questa negatività il vero luogo del sé: il soggetto. Si sono accorti che la sostanza è permeata di vuoto, abbracciando l’assenza in seno suo, ma non hanno avuto alcun sentore del fatto che questo avrebbe avuto una relazione con il luogo del soggetto. Ma questo è Hegel al suo minimo – il luogo del soggetto, nell’adagio “la sostanza è il soggetto”, non è nient’altro che questa scissione in sé, questo taglio nell’essere introdotto dal vuoto come principio del movimento.
Il soggetto, come Hegel concepisce questa entità, non è un essere positivo e non ha essere: deve essere posto nella rottura ed è questo ciò che spinge ogni entità all’agitazione (eben diese Unruhe ist das Selbst – il sé non è nulla se non l’agitazione dell’uno, la sua rottura. Esso risiede nell’impossibilità che ogni entità sia uguale a se stessa: il soggetto è ciò che spinge oltre se stesso, non è altro che questa diseguaglianza, la parte invisibile di ogni entità positive che causa la diseguaglianza, Ungleichheit. Se si volesse esprimere chiaramente il progetto hegeliano in poche parole, estendere questa forma atomica e portarla all’atomo del pensiero hegeliano, si potrebbe dire: dall’atomo al cogito. Vi è un corto-circuito in questa espressione che lega immediatamente l’introduzione del vuoto da parte degli atomisti, l’unità speculativa dell’uno e il vuoto, e la figura della soggettività come essa emerge con il cogito cartesiano. La novità del cogito, infatti, è stata precisamente nell’aver eliminato i precedenti modi di pensiero relativi alla soggettività (anima, coscienza, individualità, persona) e introdotto il soggetto all’interno della rottura nell’essere, nella grande catena dell’essere. (Žižek ritorna più volte su questo punto, “il cogito è la rottura nell’edificio dell’essere”). Non è una sostanza, nonostante Descartes lo fissi subito dopo averlo compreso entro la res cogitans, ma quasi l’opposto, almeno nella concezione radicale che ne ebbe Hegel: esso è ciò che impedisce a ogni sostanza, a ogni sottostante principio di unità, di persistere mai nell’uguaglianza con se stessa. Vi è una frattura nell’essere, già compresa entro il vuoto nell’atomismo antico, come un luogo che stesse attendendo il soggetto, come poi fu. (Wo es war, soll ich werden?)
Per semplificare le cose: se la sostanza era la parola chiave della filosofia, la sua idea guida per portare la molteplicità al fondamentale principio uno, oltre le apparenze e il cambiamento, allora si potrebbe dire che il soggetto, in Hegel, è il nome dell’uno che si rompe in due, l’impossibilità reale che ogni sostanza sia uno. L’adagio “la sostanza è soggetto” segue direttamente dall’idea di atomo, dalla comprensione di ciò che l’atomo implica. Ma quali due dividono in questo modo l’uno? Gli atomi e il vuoto sono sufficienti a questa rottura? E questa linea retta può bastarci o non sarebbe forse il caso di fermarla o schivarla?
Ci sia permesso di passare a una seconda versione dell’atomismo: quella che è in diretta opposizione all’interpretazione hegeliana. La questione del clinamen (il termine è usato solo una volta, De rerum natura, 2.292)[v], per come viene posta di solito, suona così: gli atomi, le particelle indivisibili, sono dotate di peso come principio del movimento e tutte insieme cadono con la stessa velocità. Così date le loro proprietà minime ed essenziali, il loro movimento può essere soltanto quello di una caduta parallela, come le gocce di pioggia (“imbris uti guttae caderent inane profundum”, [“Ma se non solessero declinare, tutti cadrebbero verso il basso, / come gocce di pioggia, per il vuoto profondo”, tr. it. cit. in nota, p. 77]; da cui il famoso incipit di Althusser, la prima frase del suo trattato sul materialismo dell’incontro: “Piove”)[vi]. In questo modo nulla emergerebbe mai [“…così la natura non avrebbe creato nulla”, tr. it. cit. in nota, p. 77]. Per questo deve esservi una declinazione, uno scarto, una deviazione dal movimento verso il basso, che causi il conseguente scontro e collisione tra gli atomi, e da qui l’universo “come lo conosciamo”.
Devo scusarmi di nuovo per questa illustrazione estremamente semplificata: ricorderò soltanto che Lucrezio sostiene, piuttosto paradossalmente, tre cose riguardo al clinamen. Questa declinazione, in primo luogo, ha luogo in uno spazio e in un tempo non definite, come ripete non meno di tre volte – non ha alcuno spazio o momento attribuibile, è senza luogo e senza tempo, ma presenta ciò che sta al di fuori dell’unità di spazio e tempo. In secondo luogo: questa declinazione è assolutamente minimale: “nec plus quam minimum”, [“…non più del minimo possibile”, tr. it. cit. in nota, p. 77]. La deviazione è la più debole che si possa concepire, la differenza al di sotto della soglia di ogni differenza positiva o osservabile – una differenza differente da tutte le tipiche differenze e in grado di condizionarle tutte. Terza cosa: Lucrezio, senza alcun preavviso, si discosta improvvisamente dal suo argomento cosmogonico (in che modo il mondo ha avuto origine dal clinamen) per gettarsi nell’argomento della libera volontà. La cosmologia, improvvisamente e senza alcun passaggio, stringe le mani all’antropologia: la causalità della natura con la causalità della cultura, o piuttosto, un errore nella causalità naturale che si sovrappone a un errore nella “causalità psichica”. Così come gli atomi deviano dalla loro traiettoria, allo stesso modo la nostra volontà si sottrae ai legami della necessità e rompe I decreti del fato: la volontà viene strappata via dal destino che mette sullo stesso piatto la nostra voluntas e voluptas, il volere e il piacere[vii]. Non è solo il destino dell’universo ad essere qui in questione, ma il destino della nostra volontà e passione, iI desiderio e il piacere: non il destino in realtà, ma davvero l’opposto, cioè l’autentica possibilità di rompere il destino. Il clinamen è il punto in cui il cosmo e l’umanità si sovrappongono: questo momento fuori dallo spazio e dal tempo mostra ciò che essi hanno in comune. Così la causalità naturale e la causalità psichica sono la stessa cosa per Lucrezio, ma proprio come deviazione: una declinazione dell’uno e dello stesso, la nostra anima composta di atomi come ogni altra cosa.
Ci si potrebbe azzardare a chiamarla una “indifferenza ontologica”, o un’univocità di movimenti dell’anima e dei movimenti della natura.
Questa storia ha incontrato un’ampia e ostinata resistenza, insieme a una dura critica, passando da Cicerone ad Hegel, e in qualche caso arrivando fino ai giorni nostri. Il più irremovibile è stato Cicerone che ha stabilito il tono del discorso per secoli e millenni:
…questa è una finzione interamente infantile… da una parte la declinazione è arbitrariamente inventata ([Epicuro] dice che l’atomo declina senza una causa; per un fisico non c’è nulla di più ignominioso che affermare questo: che qualcosa accada senza una causa), e dall’altra ha escluso gli atomi senza una causa dal movimento naturale di tutti i corpi… (De finibus bonorum et malorum, 1, 19) Tirano a sorte fra loro per decidere chi declinerà e chi no? E perché declinano seguendo un minimo intervallo e non uno più grande?… Questa è solo una pia illusione, non un argomento (De fato,46)[viii].
E così via con queste critiche. Molte di più ne sono arrivate da un mucchio di altri autori, come Plutarco, Plotino, Agostino, per arrivare fino a Kant (“Epicuro fu anche tanto sfacciato da pretendere che gli atomi declinassero dal loro movimento rettilineo senza alcuna causa, così da potersi scontrare fra loro”[ix]) e infine ad Hegel, che deve averne avuto una migliore conoscenza. Hegel, in altri casi entusiasta ammiratore, ha trattato la nozione di clinamen allo stesso modo: con disprezzo. Scrive, infatti, nella Storia della filosofia, che per Epicuro gli atomi deviano dal loro movimento rettilineo “in una linea curva [in einer krummen Linie] che in qualche modo si discosta dalla direzione retta, così che collidano l’uno con l’altro, e formando in questo modo un’unità meramente superficiale [eine oberflächliche Einheit], che non deriva dalla loro essenza” (TWA 19, p. 313). Nell’Enciclopedia afferma più o meno la stessa cosa: gli atomisti hanno considerato con giustezza che il fatto di postulare che l’uno è basato sulla repulsione dell’uno come sua sorgente interna (essenzialmente come uno che respinge se stesso), ma non hanno visto che la concomitante forza opposta di attrazione segue concettualmente da questa in modo inevitabile, così per loro gli atomi “sono tenuti insieme dal caso [Zufall, coincidenza], cioè da ciò che è privo di pensiero [das Gedankenlose]. (…) qualcosa di completamente esterno [etwas ganz Äusserliches]”. (TWA 8, p. 206). Così il clinamen rappresenta ciò che è senza pensiero ed esterno, l’assenza di pensiero e di un’inerente deduzione concettuale.
Arriviamo così alla questione cruciale. Cosa appartiene all’essenza dell’atomo? Il clinamen è un’aggiunta esterna meramente superficiale che non tocca affatto la sua essenza? Uno scarto senza alcuna ragione sufficiente? E’ un destino essenziale o solo esterno per gli atomi?
Contrario a questo punto di vista, chiamerò in causa Deleuze, non proprio un hegeliano, (anzi tutt’altro che questo), ma che in questo caso dà vita a un colpo di scena molto hegeliano: direi più hegeliano dello stesso Hegel. Così leggiamo su Lucrezio in appendice alla Logica del senso:
Il clinamen, o declinazione, non ha nulla a che fare con il movimento in pendenza che giungerebbe a modificare per accidente una caduta verticale. Esso è presente da sempre: non è un movimento secondario e neanche una determinazione secondaria del movimento che avrebbe luogo a un certo momento, in uno spazio preciso. Il clinamen è la determinazione originaria della direzione della direzione di movimento di un atomo[x].
Seguendo questa linea interpretativa, contro il buon senso della tradizione sprezzante, il clinamen è da sempre già lì: è la diseguaglianza radicata nella definizione dell’atomo dall’inizio, la sua “interna” diseguaglianza con se stesso. L’atomo è la sua stessa declinazione, la paradossale unità non soltanto dell’uno e del vuoto, ma allo stesso tempo l’unità dell’entità con il suo distaccarsi da se stessa. Non si tratta di una sorte secondaria che accade all’atomo in sé e al suo supposto moto rettilineo – dal momento che vi è una deviazione dalla traiettoria, si suppone che doveva precederla una direzione rettilinea: ma questa non esiste affatto in sé. Il distaccarsi degli atomi produce retroattivamente “l’in-sé”, in termini hegeliani. Il racconto temporale che pone le cose in sequenza – prima la caduta parallela, in seguito il clinamen – è un’illusione retroattiva necessaria. La declinazione risiede negli atomi dal principio e risiede sempre in essi, in ogni tempo. Il loro essere fuori dallo spazio e del tempo sono parte e pezzo del loro spazio e tempo. Gli atomi non possono essere pensati separatamente dal loro essere-deviati, il clinamen è la loro anima, nel caso ne avessero una. E’ una cosa sola con la loro unicità, dal momento che la loro unicità è già una separazione dall’uno: un uno deviato. Ma non era Hegel a essere nella migliore situazione per poter apprezzare tutto questo? Il clinamen è il suo luogo cieco, lì dove avrebbe dovuto vedere il necessario “divenire accidentale dell’essenza”, il modo in cui l’essenza può essere se stessa soltanto mostrando la sua piena contingenza, o è piuttosto un’inerente deviazione dalla sua interpretazione dell’uno e del vuoto, qualcosa che deve aver perso a livello strutturale?
Deleuze presenta la questione essenziale in maniera sintetica ed efficace, ma ha avuto in questo un predecessore illustre. Il giovanissimo Karl Marx ha discusso la sua tesi dottorale nel 1841 a Jena (la stessa Jena dove Hegel scrisse la Fenomenologia dello Spirito e dove vide Napoleone in sella al suo cavallo bianco) che aveva come argomento, tra tutte le cose, La differenza tra le filosofie della natura di Democrito ed Epicuro: da lì si vede come Marx abbia stabilito il destino della sua impresa proprio sull’idea di clinamen. Permettetemi dunque di citare qualcosa da Marx, autore che praticamente non viene mai citato:
Cicerone lamenta in seguito… che la declinazione egli atomi accade senza una causa; e niente di più vergognoso, afferma Cicerone, può accadere a un fisico. Ma, in primo luogo, una causa fisica come quella che vorrebbe Cicerone farebbe tornare la declinazione dell’atomo alle serie deterministiche da cui essa dovrebbe essere sollevata. Inoltre, l’atomo non ha mai luogo prima di essere determinato dalla declinazione. [Dann aber ist das Atom noch gar nicht vollendet, ehe es in der Bestimmung der Deklination gesetzt ist]. Domandare la causa di questa declinazione quindi significa domandare la causa che fa dell’atomo un principio – una domanda che non ha alcun senso per chi considera l’atomo causa di ogni cosa, e quindi in se stesso senza una causa. (MEW Ergbd. 1, p. 282).
Cosa è la causa della causa? La causa ha una causa? Cosa è richiesto perché una causa sia un principio? Una causa può zoppicare? L’argomento di Marx è fondamentalmente questo: una volta che l’atomo viene posto come principio non vi è alcuna altra causa che possa interessarlo a parte la causalità già iscritta in esso: per questo la declinazione appartiene alla sua causalità interiore, non alla sua sorte successiva. L’atomo è ugualmente uniforme e univoco come peso, ma precisamente come diseguaglianza di uniformità e univocità. L’apparente distanziarsi dalla causalità porta la causa allo scoperto. E’ la causa de ce qui cloche (Lacan), la causa zoppicante, sempre co-presente in ogni causa.
Paradossalmente, Marx nella sua dissertazione ha insistito a lungo sul clinamen, non per criticare Hegel, quanto piuttosto come “strada privilegiata” per appoggiare Hegel: superando il maggiore difetto del materialismo, cioè l’istanza deterministica, in modo tale che il clinamen venisse concepito essenzialmente come la rimozione della materia, la sua sostituzione, l’intrinseca separazione dalla sua determinazione, e allo stesso tempo per abbracciare la contraddizione (oggettiva) contro il principio di non-contraddizione. Ciò che Marx ha implicitamente sostenuto è che Hegel abbia letto scorrettamente la filosofia post-aristotelica laddove avrebbe potuto arruolare Epicuro come alleato (e troviamo un excursus nella dissertazione che pone Kant nel ruolo di Democrito ed Hegel in quello di Epicuro)[xi]. Tuttavia, e questo è un grande “tuttavia”, laddove Hegel ha visto il movimento concettuale necessario che porta all’attrazione come funzionale alla sostituzione dell’unilateralità, dell’astrazione, della mera repulsione degli atomi, per mezzo della quale restano bloccati nella divisione in uno/vuoto, Marx insiste sul clinamen per mettere in scena la stessa dialettica. E questa è forse la massima ambivalenza di questo primo tentativo di Marx: il clinamen è rimozione della materia in ciò che vi è di determinismo meccanicistico o piuttosto qualcosa nella materia che la rende irremovibile? La sua persistenza nell’autentica contraddizione?
Il materialismo del clinamen (e questo non è stato abbastanza considerato da Marx) va contro alcune risorse fondamentali dell’ontologia aristotelica che si assumono spontaneamente e tacitamente. L’atomo non è né hyle, né morphe, non è materia né forma, ma precisamente un principio che elude questa divisione e tutte le intricate complicazioni dell’ilemorfismo aristotelico. E’ insieme materia e forma “in uno”: non richiede una forma come principio separato per informarlo; è informato e spinto da sé, dotato in se stesso del suo proprio impulso e impeto, nel suo movimento rettilineo come in quello deviato. E’ qui che si rivela la sua opposizione alla nozione di materia derivante dalla divisione cartesiana in cui la materia è largamente vista come inerte e passiva, governata da leggi meccaniche. Gli atomi in effetti confondono la linea di confine tra l’animato e l’inanimato, così come la demarcazione tra materia e idea, quella tra la dimensione fisica e la psichica, tra la necessità e il caso. La cosa semplice e insieme difficile da comprendere in questo atomismo è il fatto che esso si ponga contro il buon senso di un dualismo aristotelico apparentemente auto-evidente; è il modo in cui aggira questo dualismo; il pensiero di un “due in uno”, ma in un uno che non può più essere “l’Uno” e neanche del tutto un uno. Ogni “uno” è la deviazione interiore dell’unicità che demolisce la sua unicità.
Non c’è dubbio che vi sia un problema qui. La lettura di Deleuze e di Marx, profonda e lucida nella sua svolta speculativa (adesso largamente seguita dalla maggior parte della critica contemporanea), può ridurre facilmente il clinamen a un non-concetto: può velocemente diventare una chiave onnipresente. Nel peggiore dei casi esso è idealmente adatto a distinguersi come campione dell’era post-moderna: il suo slogan di moda e la parola chiave, fondendo insieme gli sviluppi della fisica, le ‘strutture dissipative’ di Prigogine, i frattali, il caos e i quanti, con gli strumenti della poesia (post)moderna, cui Jarry e Joyce, entrambi sottili ammiratori di Lucrezio, hanno spianato la strada[xii]. E non vi è che un breve passo per includere la différance-détournement di Derrida e la lignes de fuite di Deleuze, la “necessità della contingenza” di Meillassoux ecc… nella mischia generale. Si può facilmente immaginare come il clinamen possa ampliamente prosperare in questo modo: un passe-partout universale nella sua apparente singolarità e il riserbo è al proprio posto se non si ha lo stomaco per una simile prospettiva. Ma questo uso appariscente non squalifica il concetto in sé che ha prodotto questa affascinante progenie: più in particolare l’idea althusseriana di materialismo aleatorio, o “materialismo dell’incontro”, ha come premessa il clinamen, ma non posso discuterne più a fondo in questa sede[xiii].
Essenzialmente abbiamo due possibilità: o si situa il clinamen come un’eccezione (costitutiva), qualcosa che deve sempre già essere accaduto così da far emergere l’universo, accadendo al di fuori dello spazio e del tempo, senza alcun luogo o movimento all’interno della spazio e del tempo nel momento in cui si sono costituiti. O piuttosto può essere un principio “quasi-universale” onnipresente che deraglia immediatamente ogni dato uno in ogni luogo e in ogni spazio. Sembra che Badiou, nella sua interpretazione perspicace del clinamen contenuta nella Teoria del soggetto, opti più o meno per la prima soluzione:
E’ assolutamente necessario che il clinamen venga abolito nella sua stessa svolta… Ogni spiegazione particolare di ogni cosa particolare non deve richiedere il clinamen, nonostante l’esistenza di una cosa in generale sia impensabile senza di esso… L’atomo interessato dalla deviazione dà origine al Tutto senza alcun resto o traccia di questa azione. Ancora meglio: l’effetto è la rimozione retroattiva della causa… la deviazione, non essendo né l’atomo, né il vuoto, né l’azione del vuoto, né il sistema degli atomi, è inintelligibile[xiv].
Deleuze, d’altra parte, opta per la seconda soluzione, e si potrebbe leggere la sua nozione del virtuale come l’intrinseco e immanente clinamen, l’essere deviato, che si situa in ogni momento ed entità. – Avendo in mente le formule di Lacan sulla sessuazione si potrebbe anche porre la questione: Badiou è un uomo? Deleuze è una donna?
Nel primo caso lo prendiamo come un’eccezione che non ha “mai luogo”, nonostante sia sotteso a ogni “aver luogo”, come una “trascendenza immanente”, fuori-dal-mondo. Nel secondo caso “quasi-universalizziamo” l’eccezione e la rendiamo immanente ad ogni “aver luogo”, facendone così una deviazione universale di ogni universale, il fuori-dall’unicità di ogni Uno (col pericolo di fornire in questo modo un passe-partout conveniente e non vincolante). Come pensare insieme l’Uno e l’Altro? E’ possibile una terza opzione?
È allora l’intuizione speculativa hegeliana, con le conseguenze di ampia portata che Hegel stava per trarre, la trama fondamentale del racconto dell’atomismo come materialismo? L’uno, il vuoto, la spaccatura, la negatività, il soggetto inscritto nella spaccatura? O forse la trama principale risiede nella deviazione, nel clinamen, nella separazione dall’uno e dal vuoto? – In conclusione proverò a proporre una terza versione di questa storia sull’atomo. C’è qualcosa nell’atomo che potremmo tradurre nello slogan: “dimmi cosa pensi dell’atomo e ti dirò chi sei”. Chi sei tu – Hegel, Marx, Deleuze, Althusser, Badiou?
Torniamo indietro a Democrito e consideriamo un’opzione che né Hegel né Marx hanno valutato: un passaggio oscuro che è stato posto in evidenza da Lacan, vedendovi qualcosa come “l’atomo del pensiero e dell’essere”, opposto all’atomo hegeliano. In un famoso passaggio ne I quattro concetti fondamentali, Lacan dice:
Quando Democrito ha provato a designarla [l’origine], presentando già se stesso come avversario di una pura finzione della negatività così da introdurre il pensiero in essa, questi afferma: Non è il meden [non-essere] che è essenziale, e aggiunge… non è un meden, ma un den, che in greco è un neologismo. Non ha detto hen [uno]: figuriamoci se avesse detto on [essere]. Cosa dice invece? Dice questo dell’idealismo, rispondendo alla domanda che ho fatto oggi: Niente, forse? – non forse niente, ma non niente” (pp. 63-4)[xv].
Ma cosa è un den, ammesso che sia qualcosa?
Democrito nel famoso frammento 156 (nell’edizione canonica Diels-Kranz) ha introdotto enigmaticamente proprio qualcosa che non sarebbe caduto in alcun lato della partizione tra uno e vuoto. Ha coniato il termine den che ha provocato non pochi grattacapi ai filologi classici, trattandosi di una parola costruita impropriamente in greco (“una parola coniata”, dice Lacan). La parola deriva dalla negazione di hen: uno. Hen può essere negato in greco in due modi: o come ouden (negazione oggettiva) o come meden (negazione soggettiva), entrambi significando “niente” (sebbene con diverse sfumature): più precisamente “non uno” o “neanche uno”. Den, questo termine inappropriato, significa qualcosa come “meno di uno, ma non ancora nulla”, o, forzando un po’, “meno di niente”. Rappresenta quindi una questione complessa per il traduttore. Diels tradusse questa parola curiosa con das Ichts (Das Nichts existiert ebenso sehr als das Ichts)[xvi]. La traduzione inglese di W. I. Matson ha proposto “hing”, opposta a alla parola “thing”: “Hing is no more real than nothing” oppure “Hing exists no more than nothing”[xvii]. Una resa più accurata sarebbe stata “othing”, sottraendolo dal “nothing”. Barbara Cassin, formidabile studiosa francese, ha proposto nella sua traduzione ien – non rien, niente, ma ien, precisamente “non niente”, come dice Lacan (o in alternativa iun, non uno).
La peculiare fusione dell’ultima lettera della negazione con la positività negata ci obbliga a interpretare l’atomo non solo come non affermazione o posizione, essere o uno, ma ancor di più non essendo neanche la loro negazione, mancando della consistenza di “niente” o “rien”: l’atomo è letteralmente meno che niente, lo si deve chiamare “ien”… Den è il nome dell’atomo nel momento in cui non si può mescolare con l’essere dell’ontologia e neanche considerarlo come corpo elementare della fisica[xviii].
Ma allora cosa è questa entità, il den? Non è qualcosa, non è il nulla, non è essere, non uno, non esiste positivamente, non è assente, non contabile – non è precisamente l’oggetto di cui siamo alla ricerca? Qual è il nome del den – l’objet a? Questo è il punto che Lacan mette in evidenza nella nostra citazione, nonostante non possa davvero sfuggire alla negazione: “Niente, forse? – non forse niente, ma non niente”. Non è una negazione, ma piuttosto come la decapitazione del niente: tagliandogli la testa, trasformandolo in Ichs, hing, othing, ien. O per usare un termine di Badiou: non negazione, ma sottrazione. Non è una sottrazione dall’essere che introduce un vuoto e neanche il resto di una negazione dell’essere che non è riuscita del tutto, ma piuttosto – è questo è l’incredibile speculativo – una sottrazione dal non-essere, una negatività che rimuove se stessa. Vi è come una mancata doppia negazione, un errore nell’hegeliana negazione della negazione. Qualcosa emerge in questa imposizione e fallimento della negatività, ma non è davvero qualcosa, non ha positività né identità: e tuttavia questo è proprio l’essere dell’atomo.
Heinz Wismann, uno dei più grandi specialisti di Democrito, non esita a tirare questa conclusione:
In realtà il “reale” evocato dal termine rudimentale (den) creato da Democrito deve la sua esistenza solo alla rimozione della negazione (me) che è intrinseca sia alla realtà concettuale che lessicale del “niente” (meden). L’essere, si potrebbe affermare, è soltanto uno stato di privazione del non-essere [l’être … n’est qu’un état privatif du non-être]; la sua positività è un’esca. E’ un tipo di sottrazione operata sul niente [soustraction opérée à partir de rien, sottrazione eseguita a partire dal niente]: l’atomo può essere pensato come l’avatar del vuoto [avatar du vide]”[xix].
Da qui il titolo del libro di Wismann, Les avatars du vide). Se l’atomo è den, allora per Democrito non può avere peso, non vi può essere alcuna caduta parallela né il problema stesso del clinamen. E’ stato solo Epicuro in realtà ad attribuire un peso agli atomi, essendo in questo involontariamente fedele all’ontologia aristotelica, incapace di concepire che l’atomo non fosse un corpo. Gli atomi non sono corpi, ma mere traiettorie che producono corpi. Sembra esservi come una conferma in anticipo del dilemma presentato dai fisici atomici moderni: o il corpo o l’onda, non si possono avere entrambi; c’è una parallasse. E se Democrito, inconsapevole di tutto questo, ha optato per le onde (il rhysmos era per lui la proprietà fondamentale degli atomi), l’ontologia aristotelica, invece, compreso Epicuro, ha optato per i corpi[xx]. Ne è seguita una certa ontologia e fisica. – Non sorprende dunque che Platone, così ci racconta Diogene Laerzio, voleva dar fuoco a tutti gli scritti di Democrito (ma erano troppi), come non sorprende che, arrivato ad Atene, nessuno lo riconoscesse.
Il den è come uno scandalo ontologico. Lacan ci torna sopra ne Lo stordito:
Democrito ci ha dato in dono l’atomos, il reale radicale, con l’elisione del “no”, me, ma in una modalità la cui domanda richiede la nostra attenzione. In questo modo il den è stato il passeggero clandestino il cui guscio adesso forma il nostro destino. In questo non è stato più materialista di chiunque abbia qualcosa di sensato [n’importe qui de sensé], ad esempio me o Marx” (Autres écrits, Paris: Seuil 2001, p. 494).
E per aggiungere un riferimento da un’area completamente diversa: quando a Samuel Beckett veniva chiesto insistentemente conto delle implicazioni filosofiche del suo lavoro, scrisse (in una lettera del 1967): “Se fossi nella non-invidiabile posizione di dover studiare le mie opere, il mio punto di partenza sarebbe “Nulla [Naught] è più reale…”[xxi]. Così Beckett stesso propone il frammento 156 di Democrito il nucleo (uno dei due nuclei) della sua intera opera. Se ne è servito spesso, in varie occasioni, e nelle sue tarde opere ha inventato un altro nome per esso: l’ultimo non-annullabile (espressione che porta in realtà a una direzione sbagliata, indicando qualcosa dell’essere che non può essere annullato, laddove den è letteralmente “meno che niente”, come recita il libro di Žižek [Less than Nothing, n. d. .t.]: una sottrazione dal niente).
Il den condensa la nostra questione al minimo. Ciò che sorprende in particolare è la sua intrinseca connessione con il racconto hegeliano, che ho considerato come la migliore spiegazione dell’impatto filosofico dell’atomismo, secondo la divisione discriminante uno/vuoto, essere/non-essere. Il den emerge letteralmente nello stesso luogo, nella stessa divisione, nel mezzo della rottura che Hegel ha considerato come lo spettacolare fondamento. Il den è co-estensivo e allo stesso tempo incommensurabile rispetto “all’uno”, l’uno che gli atomi introducono come conto dell’essere, e anche rispetto al vuoto in quanto rovescio dell’uno spaccato. Si potrebbe dire che si tratti della metà scomparsa dell’atomo hegeliano, l’uno che era già spaccato nella metà presente e in quella scomparsa, con la co-appartenenza di essere e non essere, dell’uno e del vuoto come matrice dialettica – ma il den è la metà scomparsa di questa unità spaccata in se stessa, esattamente dal non essere del tutto scomparsa e neanche essere del tutto qui, dal non essere in alcuna relazione dialettica con la rottura fondativa dell’atomo. E’ il puro sovrappiù della rottura, una (non) entità che fugge la divisione non essendo ancora da qualche altra parte, risiedendo nella divisione in sé. Non una presenza originaria o un’assenza, non un principio fondativo, una mera hing (o othing) derivata dalla rottura (in uno/vuoto, essere/non-essere) e irriducibile ad essa.
Il den può essere pensato soltanto dopo l’uno, come l’operazione che sottrae e non come una provenienza, troncata o meno. Non può essere soggetto alla dialettica proprio perché non si tratta di una negazione della negazione, assorbita e rimossa, ma una sottrazione della stessa negazione… Non è un’entrata, ma un’uscita: una via di fuga che incespica l’origine e svia l’intera storia della filosofia… (Cassin, pp. 83-4).
Ecco la materia cruciale della questione (in senso figurato e letterale): il den non giunge del tutto dopo “l’uno”, ma nello stessa scatola dell’uno, senza per questo diventare un due o uno zero. Rappresenta l’altra faccia dell’uno, essendo né il niente della sua negazione e neanche la molteplicità della sua proliferazione. Si sottrae al conteggio e tuttavia dipende dall’uno: è il taglio del significante ai suoi minimi termini.
La questione del clinamen è forse indicativa a questo punto. Abbiamo visto che Hegel ha parlato con disprezzo del clinamen, affiancandosi ai numerosi detrattori di esso, apprezzando allo stesso tempo la profonda intuizione della rottura nell’uno e nel vuoto come costitutiva dello stesso atomo: un nucleo per la sostanza, il soggetto, la negatività, l’essere, il niente, la dialettica. D’altra parte Deleuze ha dato grande risalto al clinamen, essenzialmente come modo per evitare l’uno e il vuoto: esso sarebbe un movimento che permette di aggirare questo taglio, la negatività, la mancanza ecc…, nascosto nell’atomo, insieme a tutte le trappole della dialettica hegeliana, e questo aggiramento spiana la strada per la positività del divenire. Sembra quindi che siamo come parallasse quando consideriamo l’atomo: o si vede la rottura, l’uno/il vuoto ecc…, come ha visto Hegel, o si vede il clinamen, la deviazione interna, la torsione, la declinazione, il divenire immanente non premesso al taglio della negatività, che poggia sulla deviazione come il divenire senza un vuoto. E’ come se vedere una parte precludesse la possibilità di vedere l’altra: non si può trovare un compromesso o una sintesi tra le due.
Riprendendo la coda della felice invenzione democritea del den, potremmo forse evitare questa parallasse: è solo sulla base dell’uno e della spaccatura che il den può emergere, come sottrazione della negatività, non la sua esorcizzazione. In questo modo si evita di porre il clinamen come “eccezione fondativa” (Badiou) o virtualità universalizzata (Deleuze). Si possono sostenere così entrambe le parti, l’uno e il den, nella loro autentica incommensurabilità, come il vero spacco dell’essere, il luogo dove sia l’essere che il pensiero emergono e si confondono. Produce un nuovo oggetto ancora nascosto dall’alba della filosofia, come suo passeggero clandestino: un oggetto senza identità e che non fonda alcuna ontologia. Questo è forse il punto in cui la psicoanalisi , come abbiamo cercato di fare con i miei amici di Lubiana, debba essere compresa come l’erede alla dialettica hegeliana, non il suo abbandono, ma anche immaginandola come qualcosa che emerge al suo interno e che non può essere spiegata nei suoi termini.
Se questo è materialismo, allora lo è di un tipo molto particolare. Non è il materialismo del corpo, non il materialismo della materia, non il materialismo della scienza e neanche un materialismo come istanza ontologica. Esso dipende, alla base, dall’affermazione che un due non è un due che risulti dal contare, quanto piuttosto un “uno in più”, uno più qualcosa che non ha mai avuto la consistenza di un essere o un niente. E anche il suo “uno” non è nient’altro che un puro taglio, una rottura che non ha mai avuto la consistenza di un’unità – è il “meno-uno”, piuttosto che l’uno. Un meno uno più il den – il minimo prerequisito per la teoria? Così, con questa coppia dispari, che non è neanche una coppia, con queste due entità, che non sono neanche entità, con questa non-relazione di non-entità, io ho esposto il caso.
NOTE
[1] Con TWA si intenda G.W.F. Hegel, Werke, l’edizione delle opere complete uscita per Suhrkamp e basata sulla prima edizione delle opere complete di Hegel, quella 1832-1845.
[i] La versione più sintetica di questo problema è fornita da una citazione di Isocrate, contemporaneo di Platone: “Per alcuni vi è un numero infinito di esseri, per Empedocle ve ne sono quattro, per Ione solo tre, per Alcmeone due, per Parmenide e Melisso uno, mentre per Gorgia non ve n’è alcuno”. Cfr. soprattutto il Sofista di Platone, 242c-d.
[ii] Citato da Heinz Wismann, Les avatars du vide, Paris, Hermann 2010, p. 80.
[iii] Il reale lacaniano – e se vi è un materialismo lacaniano, questo si riferisce alla nozione di reale – non è né un pensiero, un’idea, né un essere (e neanche una materia per quella materia), ma qualcosa che emerge precisamente nella loro frattura: qualcosa che va perduto nella conseguente divisione auto-evidente in essere e pensiero, insieme alla loro opposizione.
[iv] The Phenomenology of Spirit, TWA 3, p. 39. Mi sto servendo della traduzione di Terry Pinkard, disponibile on-line: “Die Ungleichheit, die im Bewußtsein zwischen dem Ich und der Substanz, die sein Gegenstand ist, stattfindet, ist ihr Unterschied, das Negative überhaupt. Es kann als der Mangel beider angesehen werden, ist aber ihre Seele oder das Bewegende derselben; weswegen einige Alte das Leere als das Bewegende begriffen, indem sie das Bewegende zwar als das Negative, aber dieses noch nicht als das Selbst erfaßten” [abbiamo tradotto le citazioni di Hegel dall’inglese, perché Dolar introduce delle modifiche nelle traduzioni inglesi dei testi hegeliani, n. d. t.].
[v] “id facit exiguum clinamen principiorum / nec regione loci certa nec tempore certo” [“Ciò lo consegue un’esigua declinazione dei primi principi, in un punto non determinato dello spazio e in un tempo non determinato” (tr. it. La natura, a cura di Francesco Giancotti, Garzanti, Milano 2006, p. 81)]. Mi sono servito dell’edizione del De rerum natura tradotta da W. H. D. Rouse e rivista da Martin Ferguson Smith, Cambridge (Mass.), Harvard UP 2006. Il termine latino usato generalmente (soprattutto dallo stesso Lucrezio) è declinatio, declinazione, e l’unica occorrenza di clinamen, questa deviazione dall’uso comune, sembra aver eclissato il suo gemello meno affascinante. E’ come una parabola: il clinamen è già una deviazione dalla/della deviazione.
[vi] Louis Althusser, Le courant souterrain du matérialisme de la rencontre (1982), in Écrits philosophiques et politiques 1, Paris: Stock/IMEC 1994, p. 553. Althusser celebra la singolarità del clinamen precisamente non in quanto principio o ragione – in quanto opposto a tutte le altre filosofie che poggiano su un fondamento – ma appunto allontanandosi da ogni principio o logos.
[vii] Cfr. Derrida: “Mes Chances: A Rendezvous with Some Epicurean Stereophonies.” in: Joseph H. Smith and William Kerrigan (eds.), Taking Chances: Derrida, Psychanalysis, and Literature. Baltimore: The Johns Hopkins University Press 1984, p. 7.
[viii] Per queste fonti e per la ricostruzione del dibattito faccio riferimento a Ernst A. Schmidt, Clinamen, Heidelberg: Universitätsverlag Winter 2007, pp. 53-60
[ix] Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels, 1755, TWA 1, p. 234.
[x] Logique du sens, Paris: Minuit 1969, p. 311. Simile e più in breve anche Différence et repetition…
[xi] Cfr. Peter Fenves, “Marx’s Doctoral Thesis on Two Greek Atomists and the Post-Kantian Interpretations”, Journal of the History of Ideas, Vol. 47/3, pp. 433-452.
[xii] La prima frase di Fineggans Wake inizia col celebre: “river run, past Eve and Adam’s, from swerve of shore to bend of bay…”. Troviamo la ‘swerve’ (deviazione) proprio in apertura e alcuni commentatori hanno visto in questo passo un richiamo a Lucrezio: il clinamen come il più appropriato incipit.
[xiii] Per Althusser, la grandezza di Epicuro sta nel fatto che ogni altra filosofia ha proposto un principio fondativo di una sorta o di un’altra, e lo ha posto all’origine, mentre Epicuro ha proposto la separazione, la deviazione da ogni principio fondativo come l’origine.
[xiv] Théorie du sujet, Paris: Seuil 1982, p. 79-80.
[xv] The Four Fundamental Concepts of Psychoanalysis, transl. Alan Sheridan, London: Penguin 1979.
[xvi] Hermann Diels & Walther Kranz (eds.), Die Fragmente der Vorsokratiker II, Berlin: Wiedmannsche Buchhandlung, 1935, fr. 156, p. 174. – Posso aggiungere che nella mia lingua il traduttore sloveno Anton Sovre ha seguito questa scelta, coniando il neologismo ‘ič’, opposto a ‘nič’, niente. Predsokratiki, Ljubljana: Slovenska matica 2002, p. 200.
[xvii] W. I. Matson, “Democritus, Fragment 156”, The Classical Quarterly, 13, 1963, pp. 26-29.
[xviii] Alain Badiou & Barbara Cassin, Il n’y pas de rapport sexuel, Paris: Fayard 2010, p. 81.
[xix] Heinz Wismann, Les avatars du vide, Paris: Hermann 2010, p. 65.
[xx] Democrito ascrisse tre proprietà all’atomo: rhysmos, il ritmo, l’onda; diathigè – il toccare, il contatto; tropè – il ritorno. Aristotele li tradusse nei suoi termini come schema, taxis, thesis, che in latino sono diventati forma, ordo, positio. Si dovrebbe notare come tutte le descrizioni che Democrito fornisce sono quelle di un movimento, laddove Aristotele si riferisce a uno stato.
[xxi] Disjecta, New York: Gove Press 1984, p. 113. Aveva già usato questo termine in Murphy, il suo romanzo giovanile (1938) (“… naught than which, in the guffaw of old Abderite, nothing is more real”), e ancora in Malone dies (1951).
(traduzione dall’inglese di Giuseppe Montalbano)
Mladen Dolar (1951) è un filosofo sloveno ed è membro della Scuola psicanalitica di Lubiana. Dal 1982 insegna all’Università di Lubiana. Fra le sue pubblicazioni (in inglese), ricordiamo soprattutto A Voice and Nothing More (Cambridge: MIT Press, 2006).
domenica 16 giugno 2013
Il Segreto delle grandi storie
Il segreto delle Grandi Storie è che esse non hanno segreti. Le Grandi Storie sono quelle che abbiamo già sentito e che vogliamo sentire di nuovo. Quelle in cui possiamo entrare da una parte qualunque e starci comodi. Non ci ingannano con trasalimenti e finali a sorpresa. Non ci sorprendono con l’imprevisto. Ci sono familiari come le case in cui abitiamo. Come l’odore della pelle del nostro amante. Sappiamo in anticipo come vanno a finire, eppure le seguiamo come se non lo sapessimo. Allo stesso modo in cui sappiamo che un giorno dovremo morire, ma viviamo come se non lo sapessimo. Nelle Grandi Storie sappiamo chi sopravvive, chi muore, chi trova l’amore e chi no. E ciò nonostante vogliamo sentirle un’altra volta.
In questo consiste il loro mistero e la loro magia.
Arundhati Roy, Il Dio delle Piccole Cose
martedì 11 giugno 2013
sabato 8 giugno 2013
Forme d'arte
"Ogni forma d'arte dove si denuncia la condizione dell'uomo è sempre vista come il fumo negli occhi dai benpensanti bigotti e da quei politici reazionari.
Non piacerà quindi a tutti ma tutti saranno costretti a pensare a se stessi"
Lorenzo
venerdì 7 giugno 2013
Un paese doloroso di Giuseppe Civati
Un Paese doloroso
Gli operai a Terni picchiati con i manganelli insieme al sindaco della città, il caso Cucchi che rimbalza sulle pagine dei giornali accompagnato da gesti volgari e insultanti e da una sentenza che fa discutere, l’Ilva di Taranto con le sue contraddizioni che il governo cerca di affrontare con lo stesso manager che la proprietà aveva indicato in qualità di commissario.
L’Italia è anche questo e soprattutto questo. Un Paese in cui il disagio continua a crescere, in attesa delle soluzioni che la politica sono anni che fatica a dare. E mentre Berlusconi attacca la Merkel (risparmiandosi i soliti epitoti) per fare un po’ di campagna elettorale (con la mano sinistra, perché a lui il governissimo va benissimo), e mentre tutto è accompagnato da un dibattito finto (anzi, fintissimo), le questioni diventano ogni ora più dolorose. Non che sia facile affrontarle, ma tutto dovrebbe essere misurato con quello che c’è fuori, con i disastri ereditati e rinnovati nel corso degli ultimi anni, con le difficoltà di chi non vuole arrivare alla fine della legislatura, ma alla fine del mese.
Lo scrivo soprattutto per me: ritrovare questa misura, accompagnarla con l’umiltà e con il rispetto per chi dovremmo rappresentare, riconoscere il conflitto come elemento essenziale (altro che pacificazione) della vicenda del nostro Paese (e del mondo in cui viviamo), può forse aiutarci a ritrovare la strada. E ad alzare il livello del dibattito (dibattito? Quale dibattito?).
A questo dobbiamo dedicare i prossimi mesi, in totale discontinuità con quanto è accaduto finora. Da sempre, potremmo dire, nell’Italia dolorosa in cui ci ritroviamo, e da cui dobbiamo trovare il modo di uscire. Presto e però con costanza, perché di bacchette magiche, di uomini della provvidenza, ne abbiamo avuti già. Con bandana e loden, a seconda delle stagioni. E con un senso del nuovo che, lo sappiamo, è molto più impegnativo del vecchio. Che infatti troneggia e si perpetua. Incontrastato.
G.Civati
giovedì 30 maggio 2013
Il latino contro il coma mentale
Con il succedersi delle riforme scolastiche si è assistito a una graduale e costante riduzione dell’insegnamento del latino nelle scuole. Ciò in parte è dovuto alla diffusa tendenza a ritenere che questa lingua abbia fatto il suo tempo, a considerarla quindi un retaggio del passato, quando le persone colte, potenti o comunque privilegiate se ne servivano per mantenere una sorta di supremazia sugli altri comuni mortali.
Chi non l’ha mai studiato secondo me è incline a pensare che si tratti di una lingua da azzeccagarbugli. Che senso ha poi riesumare una lingua non più parlata, ovvero una lingua morta? Guai, però, a esprimersi in questi termini con i docenti della materia: mi ricordo che alla mia insegnante del liceo andava in corto circuito il neurone con conseguente fuoruscita di fumo dalle orecchie quando qualcuno osasse esprimere opinioni di tale sorta. Le interrogazioni facevano tremar le vene e i polsi e all’epoca vigeva la tolleranza zero. Non ricordo tuttavia nessuno dei miei compagni, anche tra coloro che faticavano di più, che avesse mai espresso dubbi sull’utilità dello studio di questa lingua.
In effetti la fortuna che ha avuto il latino nel corso dei secoli, fino a diventare lingua universale, è dovuta sicuramente al fatto di essere stata la lingua di Roma caput mundi, ma probabilmente anche alla sua stessa struttura, che risponde a una logica intrinseca per certi aspetti di tipo matematico. Il latino è una lingua più flessibile e versatile dell’italiano, ahimè, che pure da esso è derivato: paradossalmente è una lingua più evoluta, nonostante sia più antica. L’italiano è una sorta di figlio degenere: essere più recente non significa essere migliore. Mentre la posizione delle parole è assolutamente e irrimediabilmente rigida in italiano, essendo essa fondamentale per la comprensione della frase e per conferire un significato piuttosto che un altro, in latino, linguaggio che per qualche aspetto ricorda un po’ il calcolo combinatorio, la posizione delle parole può variare tranquillamente, anche per rispondere a esigenze estetiche o metriche, senza che il significato abbia a mutare in alcun modo.
In italiano posso dire per esempio: «la maestra loda l’alunna» e non ho altre combinazioni possibili per dire la stessa cosa; disponendo diversamente i termini, per esempio invertendo la posizione di “maestra” e “alunna” nella frase il significato è tutt’altro. In latino, oltre a risparmiare gli articoli, perfettamente inutili, posso cambiare a piacere le posizioni del soggetto, del verbo e del complemento oggetto, in quanto l’informazione su quale sia il soggetto e quale il complemento è data dalla desinenza. La frase in esempio può essere infatti espressa in sei diversi modi equivalenti, che corrispondono a tutte le combinazioni matematicamente possibili dei tre termini che vi compaiono: magistra laudat discipulam, magistra discipulam laudat, laudat discipulam magistra, laudat magistra discipulam, discipulam laudat magistra, discipulam magistra laudat. È un po’ come, per fare un esempio matematico, cambiare la posizione degli addendi in una operazione di somma: la somma non cambia.
Il latino dispone dunque di molti più gradi di libertà. Virgilio può permettersi di costruire un esametro del tipo: «quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum» (Eneide, VIII, 596), che noi dobbiamo totalmente e forzatamente ri-arrangiare in «ungula quatit quadrupedante sonitu campum putrem» per poterlo tradurre in modo grossolano come: «lo zoccolo (dei cavalli) scuote con quadruplice tonfo il campo fradicio». Il maggior grado di libertà della lingua è anche in una certa misura un maggior grado di libertà del pensiero.
Per la sua struttura logica il latino rappresenta un’ottima ginnastica mentale che contribuisce, come e più di altre materie di studio, a sviluppare la rete sinaptica cerebrale. Mentre in un computer il sistema di istruzioni operative, ossia il software, interagisce con l’hardware ma non lo modifica, nel cervello umano l’apprendimento, anche se non propriamente paragonabile a un sistema di istruzioni operative, modifica l’hardware, cioè la materia grigia cerebrale, creando nuove reti nervose attraverso le connessioni sinaptiche tra neuroni. Il cervello allenato è un cervello che ha acquisito un software più potente, ma che allo stesso tempo ha sviluppato anche un hardware più efficiente. In questo senso il latino è un’ottima palestra, e il suo studio sarebbe consigliabile a mio avviso già a partire dalla scuola media inferiore, per non dire, a livello di rudimenti, già dall’ultimo o penultimo anno delle elementari.
Lo studio del latino non dovrebbe essere limitato alle scuole a indirizzo umanistico, bensì esteso anche e soprattutto a quelle con indirizzo scientifico, proprio perché l’effetto ottenibile in termini di plasticità mentale è sinergico con quello indotto dallo studio della matematica o della fisica. Lo scienziato e il ricercatore devono possedere, oltre a un grande bagaglio culturale, anche la capacità di osservare le cose da numerosi punti di vista e da varie angolazioni. Il latino, che è una lingua logica ma estremamente flessibile, fornisce in questo senso un buon aiuto. Molti ricercatori devono le loro scoperte alla capacità di cogliere aspetti di non immediata evidenza, grazie ad una abilità mentale sviluppata con lo studio.
Il latino, che, oltre a essere una lingua, per certi aspetti è una scienza e magari anche un’arte, aiuta a sviluppare una capacità mentale di questo tipo. Credo che Enrico Fermi, che ai tempi del liceo divorava trattati di matematica e fisica scritti in latino, debba qualcosa anche a quest’ultimo. Il latino è un antidoto al coma mentale dei nostri svogliati e demotivati studenti. Per sviluppare le loro sinapsi, spesso destinate all’atrofia, andrebbe ripristinato a partire dalla scuola dell’obbligo
O. Valentini – Bresciaoggi, 29.05.2013
martedì 21 maggio 2013
Forza e limiti del linguaggio
Nella lingua o dialetto siciliano non esiste il tempo futuro, ma una forma perifrastica contenente il condizionale passato.
Questo spiega molte cose, se vogliamo dare valore alla lingua e significato all'agire linguistico.
Condivido infatti quanto affermo Wittgenstein: " I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo"
Lorenzo
sabato 11 maggio 2013
Lo diceva già Aristippo
In tempi in cui chi possiede la ricchezza conta molto di più di una qualsiasi altra persona è meglio rivolgersi alla nostra antica saggezza europea, che poi ebbe origine da Grecia e Cipro....guarda caso.
"Da un punto di vista etico è migliore la vita del mendicante di quella dell’incolto; ai mendicanti, infatti, manca solo la ricchezza, agli altri, invece, l’intera condizione umana”.
Aristippo
Certo, noi obbiettereremo il fatto che con l'etica non si mangia, non si mandano i figli a scuola e non si curano le malattie, ma questo assunto dve valere affinchè tutti abbiano il coraggio di guardare negli occhi il potente di turno, ben sapenso che non vale nulla.
C.
domenica 5 maggio 2013
Ius Soli Ius Sanguinis
Vediamo allora di esplicare, parlando di princìpi, sul perchè della contrapposizione riguardo la legge sulla cittadinanza italiana che, per legge, la si vorrebbe dare a tutti i nascituri sul suolo italiano.
Si tratta di due princìpi : lo Ius Soli e lo Ius Sanguinis.
In Italia vige lo Ius Sanguinis, di derivazione dal diritto romano, cioè si rispetta e si mantiene la nazionalita dei genitori.
E' un principio che si basa sulla visione oggettiva della persona e della nascita, della venuta in vita. Si rispetta e si mantengono in questo modo i diritti della propria famiglia-nazione di appartenenza.
Lo Ius Soli è di derivazione soggettiva. Il principio è basato sulla considerazione soggettiva della cittadinanza, cioè sull'evoluzione del diritto della persona di poter esercitare la funzione di cittadino sul suolo natio in quanto facente parte potenzialmente della forza della nazione.
Quindi contrariamente a quello che leggo in giro tutti e due i principi sono espressione e rispetto della singola persona appena nata ed è insito in loro un valore supremo dell'individuo a mio giudizio non in contrasto con la carta universale dei diritti della persona.
In Germania ad esempio vige lo Ius Sanguinis, come in Italia, in Francia Lo Ius Soli.
Lo spettacolo avvilente a cui si assiste in questi giorni, dove i protagonisti principali sono in tutte edue le compagini in gioco, ha fatto si che si parli di questo problema appunto come un problema e non un passaggio da un principio all'altro.
Il triste è che i favorevoli allo Ius soli ci autocondannano allo stato di Italia retrograda, quando invece lo Ius sanguinis è, in linea di principo, più rispettosa della singola persona che non il principio dello Ius Soli perchè di derivazione kantiana e fitchiana.
Quindi, morale, si riporti il dibattito sui giusti binari, tenendo conto che i due modi di intendere la natalità di una persona su un suolo differente deve ora tenere conto delle differenze sociali ed economiche dei vari paesi, dello stato della persona e delel sue aspettative e speranze, cosa che fino due secoli fa non se ne teneva conto
Cornelius
Si tratta di due princìpi : lo Ius Soli e lo Ius Sanguinis.
In Italia vige lo Ius Sanguinis, di derivazione dal diritto romano, cioè si rispetta e si mantiene la nazionalita dei genitori.
E' un principio che si basa sulla visione oggettiva della persona e della nascita, della venuta in vita. Si rispetta e si mantengono in questo modo i diritti della propria famiglia-nazione di appartenenza.
Lo Ius Soli è di derivazione soggettiva. Il principio è basato sulla considerazione soggettiva della cittadinanza, cioè sull'evoluzione del diritto della persona di poter esercitare la funzione di cittadino sul suolo natio in quanto facente parte potenzialmente della forza della nazione.
Quindi contrariamente a quello che leggo in giro tutti e due i principi sono espressione e rispetto della singola persona appena nata ed è insito in loro un valore supremo dell'individuo a mio giudizio non in contrasto con la carta universale dei diritti della persona.
In Germania ad esempio vige lo Ius Sanguinis, come in Italia, in Francia Lo Ius Soli.
Lo spettacolo avvilente a cui si assiste in questi giorni, dove i protagonisti principali sono in tutte edue le compagini in gioco, ha fatto si che si parli di questo problema appunto come un problema e non un passaggio da un principio all'altro.
Il triste è che i favorevoli allo Ius soli ci autocondannano allo stato di Italia retrograda, quando invece lo Ius sanguinis è, in linea di principo, più rispettosa della singola persona che non il principio dello Ius Soli perchè di derivazione kantiana e fitchiana.
Quindi, morale, si riporti il dibattito sui giusti binari, tenendo conto che i due modi di intendere la natalità di una persona su un suolo differente deve ora tenere conto delle differenze sociali ed economiche dei vari paesi, dello stato della persona e delel sue aspettative e speranze, cosa che fino due secoli fa non se ne teneva conto
Cornelius
domenica 28 aprile 2013
L'Immaginario scientifico
L'immaginario scientifico da qualche secolo è stato il motore anche per l'arte; pittura, letteratura, scultura, musica.
Parlo appositamente di immaginario scientifico e non di scienza in sè o. peggio ancora, di tecnologia.
La scienza in sè è una pratica prettamente umana basta sulla ragione e sul confronto, sulla scoperta e la relatica ricerca della prova empirica.
L'immaginario scientifico invece è ciò che la nostra mente elabora dopo la conoscenza, una operazione della fantasia e dell'intelligenza.
Le scoperte scientifiche del '600, la filosofia di Cartesio e Leibniz, le scoperte e la filosofia di Galileo hanno proiettato l'uomo in una dimensione molto più ampia di prima.
Una nuova regione Extensa tutta da esplorare, scientificamente e culturalmente.
Iniziano a formarsi così nella mente umana proiezioni e immagini di mondi oltreterreni che prenderanno il posto del mondo ultraterreno divino, dei paradisi e degli inferni, copie del nostro mondo voluto statico e immutabile dal potere.
L'uomo può ora signare, grazie alle scoperte scientifiche, ciò che non è più della Terra e aprirsi così la mente esplorando nuovi terreni incolti e molto fertili.
Componendo quindi l'iimagine di un universo planetario in continua evoluzione, dominato da nuovi pianeti quali Giove e Saturno a cui ruotano intorno altre lune, dimostrando che Copernico aveva ragione, l'uomo si confronta con la natura e non più con Dio, o almeno ne è tentato.
L'arte si ciba di questi scenari iniziando una rivoluzione a 360 gradi in tutti i campi. Nuove tecniche, nuovi scenari.
Adam Elsheimer raffigura il nuovo «cielo galileano» quando dipinge la Fuga in Egitto, l’opera cui tiene di più.
D’altra parte Galileo stesso diventa punto di riferimento di una folta schiera di poeti e, insieme al suo annuncio, entra da protagonista in una serie ancora più fitta di poesie come in quella di John Milton nel suo Paradise Lost.
Questa diffusione scientifica procurata dall'arte viene presa come esempio dai più svariati gruppi intellettuali nel seicento barocco. In questo modo la scienza risulta "visibile" a tutti, contribuendo rapidamente a costruire quell' immaginario scientifico di massa mentre essa stessa è ancora in formazione.
Inizia così quel processo culturale e filosofico che, partendo da Cartesio, Leibniz, Locke e Spinoza, porterà a quel periodo stupendo per l'uomo che si chiamerà Illuminismo.
L’importanza, per la scienza, di questo processo è ben presente allo stesso Galileo:
«Si concede anco al Poeta il seminare alcune scientifiche speculazioni».
Cornelius
venerdì 26 aprile 2013
Stefano Rodotà e il bene comune
Cos'è un "bene comune"? Stefano Rodotà spiega che ci sono beni che non coincidono né con la proprietà privata, né con la proprietà dello Stato, ma esprimono dei diritti inalienabili dei cittadini. Questi sono i "beni comuni": dal diritto alla vita al bene primario dell'acqua, fino alla conoscenza in rete. Tutti ne possono godere e nessuno può escludere gli altri dalla possibilità di goderne.
La conoscenza in rete, su cui Rodotà si sofferma in quanto uno dei beni comuni di ultima generazione, è un bene che implica la condivisione e la partecipazione attiva nella produzione di conoscenza. Ciò implica che non può essere privatizzato né sottoposto a restrizioni.
Il punto di incidenza dei diritti fondamentali - e quindi il naturale destinatario dei beni comuni - non è più il soggetto ma la "persona", un termine che l'attuale giurisprudenza va recuperando in quanto meno astratto e più concreto. E' proprio sulla persona, inoltre, che ruotano le biotecnologie, nuove sfide della contemporaneità che generano altri diritti, altri beni e altre problematiche
La conoscenza in rete, su cui Rodotà si sofferma in quanto uno dei beni comuni di ultima generazione, è un bene che implica la condivisione e la partecipazione attiva nella produzione di conoscenza. Ciò implica che non può essere privatizzato né sottoposto a restrizioni.
Il punto di incidenza dei diritti fondamentali - e quindi il naturale destinatario dei beni comuni - non è più il soggetto ma la "persona", un termine che l'attuale giurisprudenza va recuperando in quanto meno astratto e più concreto. E' proprio sulla persona, inoltre, che ruotano le biotecnologie, nuove sfide della contemporaneità che generano altri diritti, altri beni e altre problematiche
Giulio Preti, un marxiano positivista
Giulio Preti ( Pavia 1911 - Djerba 1972) è un filosofo italiano. Diede dei contributi originali a pressoché tutte le discipline filosofiche: dalla filosofia teoretica alla filosofia morale, dalla storia della filosofia all'estetica, dalla filosofia del linguaggio alla filosofia della scienza.
I suoi primi saggi, accolti nella rivista banfiana "Studi Filosofici", lo videro coinvolto in una polemica sull'immanenza e la trascendenza in filosofia, oltre che nella presentazione delle principali novità filosofiche d'oltralpe. I suoi primi due volumi Fenomenologia del valore (1942) e Idealismo e positivismo (1943), in cui emerge con evidenza quell'impostazione tesa a conciliare istanze razionalistiche ed empiristiche cui rimarrà fedele per tutta la vita, sono di taglio decisamente teoretico: in essi, pur mantenendo in larga parte la terminologia e l'approccio mutuati da Husserl nel corso dei suoi studi, dimostra la propria sensibilità alle istanze di tipo positivistico ed ai problemi posti dal materialismo storico. Solo nel periodo successivo alla guerra approderà ad uno studio veramente sistematico del pensiero filosofico-analitico sviluppato in Inghilterra dalla "scuola" di Russell e Wittgenstein e sul continente dagli autori dei circoli neo-positivistici di Vienna e Berlino, in gran parte riparati in America nel corso degli anni '30 del '900: i frutti di questi suoi studi saranno accolti nel volumetto Linguaggio comune e linguaggi scientifici (1953), oltre che in alcuni articoli apparsi in riviste e ora raccolti nel primo volume dei Saggi filosofici (1976). Pur non abbandonando mai del tutto la propria originaria impostazione "continentale", da allora in poi Preti si sarebbe segnalato come uno dei filosofi italiani più in sintonia con temi e metodi della filosofia analitica anglo-americana. Presente nella sua opera fu anche l'influenza del pragmatismo americano, anche se limitata ad alcuni aspetti generali della riflessione sul rapporto tra teoresi e prassi, come risulta evidente dalla lettura di un libro, dato alle stampe nel 1957 e destinato a godere di un certo successo, Praxis ed empirismo: in questo volumetto egli presentò in maniera relativamente organica, per quanto rapidamente, alcuni temi al confine tra pensiero teoretico, filosofia morale e filosofia politica. Negli anni successivi la sua opera, rimasta in parte inedita e uscita postuma, si focalizzò su problemi concernenti temi teoretici trasversali soprattutto nei campi della gnoseologia, della filosofia della scienza, della metamorale (analisi teoretica di concetti propri della filosofia morale) e dell'estetica.
Giulio Preti fu autore anche di studi storico-filosofici. Nel campo della storia della filosofia antica e in quello medievistico egli concentrò il proprio interesse sui problemi della logica post-aristotelica e scolastica (si vedano gli studi contenuti nel secondo volume dei Saggi filosofici), mentre nell'ambito della filosofia moderna si occupò di Leibniz e della filosofia morale di Adam Smith, dando alle stampe due volumi rispettivamente nel 1953 e nel 1957. Sempre nel 1957 vide la luce un libro sulla Storia del pensiero scientifico, riguardante lo sviluppo dello spirito scientifico dall'antichità greca alla crisi della scienza classica tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX.
Il suo ultimo volume Retorica e logica. Le due culture del 1968 è un'opera a cavallo tra la ricostruzione storico-filosofica e il saggio teoretico, con il quale si intende dimostrare, prendendo le mosse dalla polemica aperta da Charles Snow, l'inconciliabilità tra le due forme di cultura che si intrecciano nel dibattito occidentale, quella logico-scientifica e quella umanistico-letteraria, e la necessità di far prevalere la prima sulla seconda al fine di non cedere a nuove forme di oscurantismo elitario e fanatico.
Preti, inoltre, affiancò costantemente alla propria attività di autore quella di curatore e traduttore soprattutto di classici del pensiero filosofico.
Il suo stile, volutamente trascurato, è rapido, nervoso e semplice, in implicita polemica con il "bello scrivere" e l'ermetismo tipico delle scuole idealistiche italiane. Altra interessante caratteristica di Preti come autore è quella di non ritornare quasi mai sul materiale già da lui edito: non diede mai mano infatti a seconde edizioni delle proprie opere.
La Chiesa Oggi
Non mi piace questo Papa, lo dico subito senza troppi giri di parole. Non mi è mai piaciuto da subito, da appena si è sporto dalla finestra di San Pietro e anzi ho provato una sorta di nostalgia verso l'intelligenza del papa precedente.
Sono bastate due camminate e una corsa in auto " normale" per far(ci) dimenticare il predecessore, sono bastati due inchini, un crocefisso di ferro e "tanta poverta da ostentare" per farcelo subito piacere a prima vista. Complice di tutto i mass media, ma anche i fedeli accorsi. Al popolo sempre più povero piace vedere un "povero" al potere, è come loro...senza via di uscita.
Questo io contesto: " Che il cambiamento debba sempre e per forza passare per la povertà e da se stessi"! Tipico della filosofia di Loyola: " Chi vorrà riformare il mondo cominci da se stesso"
Sembrerebbe di primo acchito un comandamento all'insegna della bontà e della rettitudine, ma così non è.
La nostra società è fondata sullle leggi e sul rispetto di esse. Leggi fatte dagli uomini per governare gli uomini stessi, il proverbiale stato laico. ma noi pretendiamo si coerenza e rispetto ma non l'esempio, il santo, il conducator. Mi fanno ridere quelli su facebook che postano foto con aforismi di grandi politici oppure, peggio ancora, di presidenti che vivono da pensionati in cascine poverelle. Sono fatti loro, è un problema personale, per cambiare le cose i personalismo devono starne fuori, sono le leggi che contano.
Ripeto qui un mio breve concetto di cui sono fermamente convinto:
Credo fermamente che per riformare una istituzione o per lasciarne un'impronta che funzioni nel tempo ci vogliano persone perbene, Il resto è temporaneità.
Però quello che non mi piace è il fatto che per cambiare bisognia per forza passare attraverso la povertà oppure tramite i suoi segni.
Non critico questo Papa anche se a me non piace, critico i giornalisti e gli opinionisti che per il fatto che rinunci agli agi significhi che sia la strada per il cambiamento.
Questo io rifiuto, come rifiuto la logica grillina che per cambiare i parlamentari debbano diventare più poveri.
Io non sono per lo status quo, chi mi conosce sa bene come la penso, ma non ho mai voluto intraprendere la strada dell' abbattere tutto. No, non voglio, lo devo a chi è morto per questa Repubblica.
Voglio allora persone perbene come i due presidenti di camera e Senato, non mi interessa se poi uno ha elogiato Berlusconi sulla lotta alla mafia, ma so che è nel partito opposto alla mafia stessa, eletto fra le fila di onorevoli che lottano per una Italia più giusta, attraverso le riforme democratiche.
Ed ecco allora che si sta prospettando un mondo, con queste due figure agli opposti, ma a favore della povertà del popolo quale condizione necessaria, che vuole andare a ritroso, dimenticare alcune importati scoperte scientifiche come i vaccini, visti come il male delle multinazionali, i cambiamenti climatici come unica opera dell'uomo perverso e tecnologico per imporre una filosofia di vita che si chiama DECRESCITA o decrescita guidata e sostenibile ( da chi?) credendo il progresso il male assoluto.
Portatore di questa filosofia è Casaleggio, vero e proprio guru di Grillo e del M5S, il quale si rifà alle teorie filosofiche di Serge Latouche( molto seguito in Italia dalla destra radicale a dalla sinistra antagonista) per un mondo che in sostanza rinunci alle proprie merci e ai propri agi. In che modo ancora non si sa ma il farsi vedere sempre dal popolo come portatore di "povertà necessaria al cambiamento" è già indice di chi deve rinunciare per primo, il resto poi si vedrà a decrescita avvenuta.
Lorenzo
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